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ref:topbtw-188.html/ 19 Gennaio 2016/A



(I've a dream - original b y M.L. King)

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"REALITY"

Ogni qualvolta si ha la (s)ventura di assistere distrattamente a quella farsa allargata da esportazione, che va sotto il nome di "primarie" e che di norma precede le elezioni presidenziali in USA, col suo carosello di personaggi plastificati dalle improbabili acconciature cotonate, che si agitano in una pulp fiction per miliardari da reality plebeo, ci si chiede se davvero la democrazia non sia il "governo dei peggiori", come senza ombra di dubbio amavano sostenere gli 'antichi'...

Poi ci si rende conto che in realtà ci troviamo dinanzi ad una oligarchia timocratica su base censitaria, dove pochi clan dinastici si disputano all'asta il trono imperiale, messo in vendita al migliore offerente come nelle peggiori cronache da Basso Impero.

E allora la prospettiva cambia, nella consapevolezza che si tratta di una costosa buffonata dalle gag imbarazzanti.
Ovvero, la classica americanata.

Di conseguenza, come in ogni sceneggiata, non possono mancare le macchiette grottesche che traggono compiacimento dall'esibizione della loro volgarità esasperata nei suoi tratti demenziali.
Insomma, è l'immancabile villain dai risvolti demenziali, che sembra uscito da una sceneggiatura atropinica di un Austin Powers in bars and stars.

Tuttavia, per quanto abituati al peggio nelle sue esasperazioni più estreme, dovrebbe esserci un limite anche allo squallore, per un trash comunque sostenibile. E invece no! Anche perché sarebbe come tentare di separare un coprofilo dall'oggetto della sua passione.

E ciò sarebbe impossibile, per la manifesta collateralità del soggetto interessato con l'elemento primario della sua perversione a rilascio naturale.

Per questo ci tocca bearci delle perfomance di Donald Trump, l'impresentabile Grizzly populista che furoreggia e spopola tra i redneck:
gli zotici analfabeti delle contee del Sud, sparpagliati in borghi di campagna dai nomi impronunciabili (Yoknapatawpha!!) e feticisticamente aggrappati come koala ai propri fucili;
i nostalgici dei fasti della Confederazione, quelli che infilano un Lee in ogni nome e si beano delle gesta gloriose del generale Nathan B. Forrest al posto delle favole della buona notte.

Il fatto che questa variante supercafona di Flavio Briatore, con una donnola morta plasticamente spalmata sul capoccione spellacchiato sia tra i più gettonati papabili alla presidenza degli Stati Uniti d'America, la dice lunga sulla natura democratica della Dreamland (oppure era Zombieland?!?). Trump il Pupazzo.
Può ripetere ben 17 frasi!

Per Aristotele, la demagogia non era altro che un sinonimo per indicare una cattiva democrazia.

Tuttavia, sentire concionare questa parodia imbolsita di Biff Tannen di immigrazione e valori amerikani, per un distopico ritorno al futuro carpenteriano, fa francamente ridere se non fosse drammatica nella sconcia esibizione di una coglioneria siderale.

È chiaro che le letture di Trump non vadano oltre Topolino ed i fumetti di Superman.

Quindi, a proposito di "cultura americana", è ovvio che non abbia mai letto "Furore" di John Steinbeck;
scrittore statunitense (e gigante della letteratura) del quale è lecito supporre ignori anche l'esistenza.

Praticamente, "Furore" è la storia di bifolchi arricchiti che a loro volta disprezzano altri bifolchi poveri, in una terra dove tutti (indistintamente) sono emigrati da qualche altro posto, costruendo un sistema fondato sulla discriminazione (razziale, sociale, economica, politica) e sullo sfruttamento selvaggio.

Peccato, perché un cafone abbrutito dal soldo facile come Trump avrebbe potuto trarre spunti interessanti per la sua campagna elettorale insieme ai temi di punta, tutti incentrati contro i chicanos;
manco fosse il senatore McLaughlin in "Machete"!

In fondo, il nostro Donaldo dai capelli belli rappresenta solo l'intermezzo comico o, se preferite, lo squallido interludio prima della tempesta che sta per arrivare...



"Una volta la California apparteneva al Messico, e le terre ai Messicani;
ma orde di straccioni americani irruppero nel paese.

E così imperiosa era la loro fame di terra, che si impossessarono della terra di Sutter, della terra di Guerrero, la spezzettarono, si azzuffarono a vicenda per disputarsene le briciole, e munirono di cannoni i poderi così conquistati.

Fabbricarono stalle e casolari, ararono i campi e procedettero alle semine.

Così, stalle e casolari, campi e raccolti, costituirono titolo di possesso; e il possesso diventò proprietà.

I Messicani, deboli e sazi, non avevano potuto opporsi all'invasione perché non v'era nulla al mondo che essi desiderassero con quella frenesia con cui gli invasori americani desideravano la terra.

Poi, col tempo, i predoni non più considerati tali si dichiararono padroni, e i loro figlioli crebbero nel paese e procrearono altri figlioli.

E non sentirono più la fame selvaggia, la fame mordente e lacerante della terra, dell'acqua e del buon cielo sovrastante, dell'erba che sboccia, delle radici che si gonfiano.

Possedevano tutte queste cose così completamente, che non le desideravano più.

[...] Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi.

E i prodotti cominciarono a venir comprati e venduti prima delle semine.
E allora le annate cattive, la siccità, l'inondazione, non furono più considerate come catastrofi, ma semplicemente come diminuzioni di profitto.

E l'amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si sgretolò in interessi;

così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre.

E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti perdettero i loro poderi, che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante.

Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni.

Così, con l'andar del tempo, i poderi passarono tutti in mano a uomini d'affari e andarono sempre aumentando di proporzioni, ma diminuendo di numero.

Allora l'agricoltura stessa si trasformò in industria.

E i proprietari imitarono, senza volerlo, Roma antica:
importarono schiavi, pur senza chiamarli così:
cinesi, giapponesi, messicani, filippini.

Vivono di riso e fagioli, dicevano;
hanno pochi bisogni. Di paghe alte, non saprebbero che farsene.
Vedi come vivono, vedi cosa mangiano.

E se si agitano, si fa presto a deportarli. E incessantemente i poderi aumentavano di proporzioni e diminuivano di numero;
e per conseguenza diminuivano di numero anche i padroni.
E i padroni picchiavano, terrorizzavano, affamavano i servi importati;
sicché molti di questi tornarono donde erano venuti, e altri si ribellarono e furono uccisi o scacciati.

I raccolti stessi subirono una metamorfosi.

Il grano si vide soppiantare dagli alberi da frutta, le biade da ortaggi destinati ad alimentare l'universo intero:
lattuga, cavolfiore, carciofo, patata;
tutti prodotti che costringono l'essere umano a curvare la schiena.

Per maneggiare la falce, l'aratro, il forcone, l'uomo sta in piedi;
ma tra i filari dell'insalata o del cotone deve prostrarsi, o strisciare come un insetto, o camminare sui ginocchi come un penitente.

E accadde che i proprietari non lavorarono più le loro terre.
Coltivavano sulla carta;
e dimenticarono l'odore della terra, il gusto tattile della zolla sbriciolata tra le mani;
ricordarono solo che la possedevano, tennero presente solo la cifra dei guadagni che ne traevano o delle perdite che a causa di essa dovevano subire.

E i latifondi presero proporzioni tali che il padrone non poteva nemmeno concepirne le dimensioni;
erano così vasti che occorrevano battaglioni di contabili per rintracciare perdite e profitti, reggimenti di chimici per fecondare il terreno, brigate di intendenti per sorvegliare i servi proni tra i filari.

E allora davvero l'agricoltore si mutò in bottegaio, fino al punto da tenere effettivamente bottega:
pagava i suoi servi, e per rimborsarsi vendeva loro il cibo.

E di lì a poco smise persino di pagarli, per risparmiare la spesa della contabilità.

Il podere dava, a chi lo lavorava, il vitto a credito;
e poteva accadere che un servo, il quale lavorava solo per sostentarsi, alla fine del lavoro scoprisse di essere in debito verso chi gli dava lavoro.

E il padrone non solo non lavorava più la sua terra, ma molti di essi non avevano mai nemmeno vista la terra che possedevano.

Ed ecco che, d'un tratto, nel Kansas e nell'Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell'Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West.
Ed ecco formarsi a apparire le carovane dei nomadi:
ventimila, centomila, duecentomila.
Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate:
tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro:
sollevar pesi, spingere o tirare carichi, raccogliere, tagliare;
qualunque cosa, per sostentarsi.

I bambini hanno fame.
Non abbiamo dove vivere.

No, non siamo forestieri, no! Da sette generazioni siamo americani;
e prima si era irlandesi, scozzesi, inglesi, tedeschi, italiani.

Uno dei nostri antenati ha combattuto nella rivoluzione, e tanti nella guerra civile.

Americani, siamo, americani al cento per cento!
Affamati; e risoluti.

Avevano carezzato la speranza di trovare una casa, in California, ed ecco che trovano, dappertutto, solo odio.

Okies: i padroni li odiano perché sanno di essere deboli al confronto degli Okies, d'essere ben nutriti al confronto degli Okies;
e han tutti sentito dire dal nonno quanto sia facile, a chi è affamato e risoluto e armato, sottrarre la terra a chi è debole e sazio.

E nelle città i negozianti odiano gli Okies perché gli Okies non hanno denaro da spendere;
i banchieri odiano gli Okies perché sanno che non possono estorcerne nulla;
e gli operai odiano gli Okies perché, affamati come sono, offrono i loro servizi per niente, e automaticamente il salario scende per tutti.

E gli spodestati, nomadi, confluiscono e continuano a confluire in California:
duecentocinquantamila, trecentomila.

Dietro alle prime ondate, altre si formano e si accavallano, perché le trattrici non cessano di dilagare nei campi.

Altre ondate di spodestati senza tetto:
gente indurita, accanita, pericolosa.

E se da una parte i Californiani ambiscono molte cose, come accumular sostanze, ascendere la scala sociale, concedersi svaghi e oggetti di lusso, dall'altra i nuovi barbari chiedono due cose sole:
terra e nutrimento, che per loro sono una cosa sola.



[...] Se non li teniamo a bada, questi straccioni, s'impadroniscono di tutto il paese.
Tutto il paese.
Porci di forestieri.
Va bene, parlano la nostra lingua, ma non sono come noi.
Basta vedere come vivono, chi di noi si adatterebbe a vivere così?
E a Hooverville, la sera, gli straccioni accoccolati.

[...] Trattarli senza pietà, dico io; o Dio sa cosa ci combinano.
Gente più pericolosa dei negri del Sud.

Se si metton d'accordo, nessuno li tiene più.
Hai ben sentito quel ch'è successo a Lawrenceville.
A Lawrenceville un poliziotto è dovuto ricorrere alla forza per scacciare un abusivo, e il ragazzo undicenne di questo straccione ha sparato, col fucile del babbo, e ha ucciso il poliziotto.
Peggio dei serpenti, ti dico.

Non bisogna lasciarli parlare, e se insistono, sparare senz'altro, sparare noi per primi.
Se un marmocchio è capace di uccidere, cosa faranno gli adulti?
L'unica è di mostrarsi più forti di loro.

Trattarli da cani.
Spaventarli.
E se non si lasciano impressionare?

Se si ribellano in tanti, e si mettono a sparare anche loro?
Son tutti avvezzi a usare il fucile fin da bambini.
Se non si lasciano impressionare?
Se si organizzano in bande, chi li ferma più?
Son tutti disperati, capisci; disperati che hanno provato la paura della fame, che è superiore a ogni altra.

E di quando in quando, qua e là in tutta la California, le razzie:
le irruzioni di agenti armati negli attendamenti degli abusivi.

Via di qui! Ordine del Dipartimento dell'Igiene.
Questo accampamento rappresenta un pericolo per la sanità pubblica.

[...] E i latifondisti, che si sanno destinati a perdere la terra in caso di rivolta organizzata, i grossi latifondisti che conoscono la storia, che hanno occhi per leggere la storia e intelligenza per capirla, sanno, conoscono benissimo il fatto fondamentale che quando la proprietà terriera si accumula nelle mani di pochi, va inesorabilmente perduta.

E sanno anche quest'altro fatto, concomitante, che quando una maggioranza ha fame e freddo, essa finisce sempre col prendersi con la violenza ciò che le occorre.

E sanno infine questo terzo fatto, meno evidente forse, ma sempre presente nel corso della storia:
che cioè le repressioni servono solo a rinvigorire e a riunire tra loro i perseguitati.

Ma i latifondisti preferiscono ignorare questi tre ammaestramenti della storia.
La terra s'accumula sempre più nelle mani di pochi, il numero degli sfrattati continua ad aumentare, e tutti gli sforzi dei latifondisti continuano a orientarsi verso la repressione.

Il denaro pubblico va speso in armamenti e in gas lacrimogeni per salvare la pelle dei latifondisti, e in spie, spie che hanno l'incarico di captare ogni minimo rumore di rivolta per poterla soffocare in tempo.

I latifondisti preferiscono ignorare l'evoluzione dell'economia, e le premesse di tale evoluzione;
considerano solo i mezzi atti a reprimere le rivolte, senza curarsi di sopprimere le cause determinanti.

Le trattrici che gettano i coloni sul lastrico, le mastodontiche imprese di trasporto, le macchine che producono, tutto questo merita l'incondizionato appoggio dei latifondisti;
e non importa se aumenta in modo spaventoso il numero delle famiglie sul lastrico, avide di qualche briciola degli sconfinati latifondi.

I latifondisti formano associazioni per proteggersi, si riuniscono a discutere sui mezzi più efficaci per intimidire, soffocare, uccidere.

E si persuadono di non dover temere il pericolo principale, costituito dall'eventualità che i trecentomila trovino, fra di essi, un capo che sappia guidarli.

Se ai trecentomila miserabili consentite la possibilità di contarsi, è inevitabile che essi conquisteranno la terra;
e non v'è gas o mitragliatrice che possa fermarli.

Così i latifondisti, che a causa del possesso dei latifondi divengono sempre più superuomini e al contempo sempre più disumani, corrono verso la propria distruzione, e senza avvedersene usano di ogni mezzo che a lungo andare finirà inesorabilmente col sopprimerli.

Ogni espediente, ogni atto di violenza, ogni scorribanda in una Hooverville qualsiasi, ogni singolo sceriffo spaccone in un accampamento di straccioni, non fanno che procrastinare di qualche giorno l'alba fatale, rendendola inevitabile."

John Steinbeck
"Furore"
Bompiani, 2013


( Sendivogius )

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