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Notizia ignorata dalla grande stampa italiana .... di disinformazione di massa...
Milano -
La battaglia intrapresa dal Giappone contro il coronavirus ha acceso a Tokyo un campanello d'allarme in merito
alla dipendenza del sistema paese dalle catene di fornitura della Cina.
Già da alcuni mesi il paese sembrava segnalare una inversione di tendenza rispetto al processo di integrazione e cooperazione
economica che il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, aveva promosso negli ultimi anni, spendendo capitale
politico e diplomatico per una normalizzazione delle relazioni con Pechino, e per il rilancio della "shuttle diplomacy" tra
i leader dei due paesi.
Sul fronte politico e diplomatico, tale indirizzo strategico cooperativo aveva già subito un durissimo colpo lo scorso
anno, di pari passo con l'esacerbarsi dello scontro per il primato strategico tra la Cina e lo storico alleato
del Giappone, gli Stati Uniti.
L'emergenza sanitaria globale in atto dall'inizio di quest'anno ha pero' chiuso definitivamente un capitolo nel rilancio
delle relazioni tra Giappone e Cina e anzi ha prodotto una clamorosa inversione di 180° già con un primo
fortissimo segnale politico:
la storica visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping a Tokyo, originariamente in programma
per lo scorso aprile, è stata rinviata a data da destinarsi, ufficialmente a causa dei rischi
di natura sanitaria e del contesto di crisi affrontato dal Giappone, ma l'assenza di una data seppure
lontana sul piano diplomatico equivale a una cancellazione definitiva.
La visita di Xi doveva fornire l'occasione per la firma di una nuova Dichiarazione bilaterale congiunta,
che avrebbe formalizzato l'apertura di un nuovo capitolo nelle relazioni tra i due paesi.
In realtà, il governo conservatore giapponese ha colto l'occasione del rinvio sine die con piacere:
all'interno della stessa maggioranza, e in segmenti sempre piu' consistenti dell'opinione pubblica,
si registra infatti un rinnovato sentimento di ostilità
nei confronti della Cina, esacerbato dalla linea repressiva riservata da Pechino alle proteste democratiche
di Hong Kong e al governo indipendentista di Taiwan.
Alla fine del mese di aprile, tale cambio di rotta del Giappone nei confronti della Cina ha assunto
un carattere ufficiale con una intervista al quotidiano "Nikkei" del segretario capo di Gabinetto
del governo giapponese, Yoshihide Suga, la figura forse più
autorevole e potente del Partito liberaldemocratico giapponese (Ldp) dopo Abe, nonché
portavoce dell'attuale governo.
Nel corso dell'intervista, Suga affermava che la gestione dell'emergenza sanitaria aveva insegnato alle istituzioni
giapponesi una dolorosa lezione in merito ai limiti della gestione burocratica a compartimenti, ed alle vulnerabilita'
di un apparato produttivo industriale troppo dipendente dalle catene di approvvigionamento internazionali,
specie per quanto riguarda forniture essenziali come farmaci e materiale sanitario.
Quanto allo stato delle relazioni con la Cina, Suga aveva sibillinamente citato l'importanza di un rapporto
di "franchezza" tra Tokyo e Pechino per la sicurezza regionale e globale .
Il segnale forse ancor più esplicito del cambio di rotta intrapreso dal Giappone sul fronte economico è
giunto pero' con il primo pacchetto emergenziale da 240 miliardi di yen (2,2 miliardi di dollari) stanziato
dal governo giapponese all'inizio del mese di aprile, per gestire le ricadute economiche della crisi.
Tra le principali finalità
del provvedimento figura infatti la rilocazione sul territorio nazionale della capacità
produttiva trasferita dalle aziende giapponesi in Cina, o la distribuzione di stabilimenti
e linee di produzione giapponesi dalla Cina a una molteplicità
di altri paesi del Sud-est asiatico, cosi' da limitare i fattori di rischio geografici
e sistemici che gravano sulle catene di fornitura.
Questi ed altri segnali provenienti da Tokyo hanno innescato un acceso dibattito nel regime comunista cinese.
A Zhongnanhai, quartiere di Pechino dove sono concentrati gli uffici dei vertici della dittatura cinese
e delle sue principali agenzie, "regna ora una seria preoccupazione in merito al ritiro delle aziende straniere dalla Cina",
secondo fonti economiche citate dalla stampa giapponese.
Le misure emergenziali adottate da Tokyo per il riequilibrio delle catene di fornitura sono state
citate apertamente nei dibattiti dei decisori politici cinesi, che sino a pochi mesi fa guardavano ancora
con fiducia alla prospettiva di una "nuova era" nelle relazioni sino-cinesi.
Hanno suscitato preoccupazione a Pechino anche i resoconti di un incontro tenuto il 5 maggio scorso dal
premier giapponese, Shinzo Abe, e da influenti figure della grande imprenditoria giapponese,
incluso Hiroaki Nakanishi, attuale presidente della Japan Business Federation (Keidanren).
In quell'occasione, Abe ha sottolineato che "a causa del coronavirus, meno prodotti giungono dalla Cina al Giappone";
ed ha aggiunto che "la gente e' preoccupata per la tenuta delle nostre catene di forniture".
Nakanishi ha concordato con il primo ministro, affermando che "dovremo rilocalizzare in Giappone la manifattura
ad alto valore aggiunto", e che "per tutto il resto, dovremo diversificare verso paesi come quelli dell'Asean",
l'Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico.
Tali dichiarazioni da parte dei vertici della politica e dell'economia giapponesi presentano implicazioni dirompenti:
potrebbero infatti tradursi in una rivoluzione a lungo termine per industrie come l'automotive e l'elettronica,
che sino ad oggi hanno basato i loro schemi produttivi al massimo sul concetto di "China plus one":
la concentrazione delle operazioni in Cina, con l'aggiunta di un solo altro paese come hub secondario
per la diversificazione.
Una svolta in questo senso da parte del Giappone e di altri importanti paesi industrializzati, a cominciare
dagli Stati Uniti, metterà in profonda crisi il modello di crescita economica cinese.
Lo scorso 8 aprile, due giorni dopo il varo del primo pacchetto economico emergenziale da parte del governo
giapponese, il presidente cinese Xi Jinping ha avvertito il Politburo del Partito comunista che
"con la progressiva avanzata globale della pandemia, l'economia globale fronteggia rischi al ribasso sempre più forti".
Il Giappone, frattanto, è già al lavoro per concretizzare la sua "strategia di uscita" dalla Cina,
cominciando dalle forniture mediche e farmaceutiche.
L'esecutivo guidato dal primo ministro Abe ha infatti avviato un coordinamento con oltre 400 imprese nazionali
per aumentare la produzione domestica di presidi medici, a cominciare dai farmaci generici,
ritenuti una delle aree più vulnerabili della catena di forniture sanitarie.
Le informazioni trasmesse su base volontaria dalle aziende verranno fornite alla Japan Medical Association e ai
singoli ospedali per agevolare le forniture.
Ad oggi i produttori giapponesi di farmaci importano circa la metà
dei principi attivi da Cina, Corea del Sud e altri paesi, ma la pandemia ha esibito
i limiti di tale dipendenza in tempi di crisi.
"Le consegne che normalmente richiederebbero quattro o cinque giorni ora richiedono tre settimane",
ha riferito un dipendente di una compagnia commerciale giapponese citato dal quotidiano "Nikkei".
La decisione del Giappone di sganciare sia l'economica che tutte le produzioni industriali dalla Cina ha
ricevuto un'accoglienza entusiastica a Washington:
gli Stati Uniti di Donald Trump, infatti, stanno intraprendendo un processo analogo, sotto la guida di figure
come Larry Kudlow, presidente del Consiglio economico nazionale della Casa Bianca.
Kudlow preme affinché lo Stato federale si faccia carico dei costi legati al rimpatrio della capacità
produttiva di aziende Usa che avevano trasferito le loro operazioni in Cina.
Sul proprio profilo Twitter, il senatore repubblicano Tom Cotton ha esortato gli Usa ha
"boicottare il Pcc (Partito comunista cinese) e tornare a costruire fabbriche in America".
Sempre su Twitter Nikki Haley, ex ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite,
ha citato apertamente il Giappone:
"Nel pieno della pandemia di coronavirus, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha proposto
una politica di allontanamento dalla Cina' ("shift away from China"), per l'edificazione di
una economia meno dipendente dalla Cina", ha scritto Haley, aggiungendo che anche gli Usa
"dovrebbero fare di questo obiettivo una loro priorita'".
Questa svolta del Giappone avrà una decisiva ripercussione sull'export della Cina e al
tempo stesso produrrà un effetto a catena su molte altre nazioni in Asia e nel mondo,
producendo ulteriori allontanamenti e rimparti di strutture produttive che lasceranno la Cina.
E' un colpo da K.O. alla globalizzazione.
( Redazione )