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ref:topbtw-469.html/ 7 Sett. 2016/A



- Esclusiva web - "Per consegnarsi Provenzano chiese due milioni di Euro ".

di Raffaella Fanelli per STOP e TOPBTW

"Bernardo Provenzano cercò di trattare la sua resa.
Ero alla Direzione nazionale antimafia quando un uomo si presentò nella sede romana di via Giulia, accompagnato dalla guardia di finanza.

Ci disse che era in contatto con il boss latitante.

Che Provenzano voleva consegnarsi allo Stato".
Vincenzo Macrì, procuratore generale di Ancona e fino al 2010 sostituto procuratore alla Dna, racconta un episodio dimenticato dai tanti esperti chiamati a commentare la dipartita di Bernardo Provenzano.

"Ricordo che quell'uomo era spaventato...
Che era stato costretto a fare da intermediario.
Ci disse che Provenzano voleva costituirsi.

Che chiedeva due milioni di euro e un mese di silenzio dal momento dell'arresto.

Perché lontano dal clamore mediatico il boss avrebbe parlato con i magistrati.

Per conto di Bernardo Provenzano chiese anche di tenere fuori la procura di Palermo.

Furono immediatamente informati il ministero dell'Interno e, per correttezza, il procuratore della Repubblica di Palermo Piero Grasso, l'attuale presidente del Senato".

Il boss per consegnarsi richiedeva una buonuscita da due milioni di euro - due quanti sono i suoi figli, Angelo e Francesco Paolo - oltre all'assoluto silenzio con i magistrati palermitani...
Perché?

Il procuratore Macrì preferisce non rispondere "sono solo mie supposizioni.

Sono invece certo dell'attendibilità di quell'intermediario".

Eppure Piero Grasso, davanti al Csm, parlò di un "millantatore"...

"So bene cosa disse Piero Grasso.
Disse anche che non era stato informato da noi, e che della presenza di un intermediario aveva saputo per caso.

Ragiono sulla base di una logica:
uno che vuole truffare lo Stato lo fa tirando in ballo Provenzano?

Che era uno dei più temuti capi di Cosa Nostra?
Lo escludo.

Ci furono due, tre incontri... e tutto fu verbalizzato e registrato.

Ci disse che Provenzano era nascosto in una località dell'alto Lazio.

Che era malato".

Era il 2003 e per il capo dell'Antimafia, Pier Luigi Vigna, la cattura di Provenzano sarebbe stato il coronamento di una già brillante carriera.

Ma la pensione arrivò prima.
E pure il sostituto.

Piero Grasso subentrò nel 2005 e, appena arrivato da Palermo, gestì l'ultimo contatto con il mediatore.

Perché poi tutto si fermò.

L'intermediario sparì, e l'11 aprile del 2006, in un casolare di Montagna dei Cavalli, a pochi chilometri da Corleone, Bernardo Provenzano finì in manette.

Dopo una latitanza durata 43 anni.

E' bene anche ricordare che l'arresto di Provenzano fu il grande successo di Pignatone, del pm Michele Prestipino e del suo braccio destro investigativo Renato Cortese.

Il boss di Corleone è morto lo scorso 13 luglio, in 41-bis, in regime di carcere duro, applicato nonostante fosse ormai ridotto a un vegetale.

E Matteo Messina Denaro resta l'unico latitante ancora in attività della vecchia Cupola mafiosa.

E' lui il capo?

"In questo momento viene indicato come il boss di riferimento.

Certamente le mafie italiane sono tutte cambiate dal '93 in poi...
Cosa Nostra si è evoluta, non usa più i pizzini per comunicare.

Sono cambiate sia la mafia siciliana sia la 'ndrangheta, un po' meno la camorra.
Di fatto quella casalese è stata indebolita fortemente e quella napoletana è una cozzaglia di bande che si contendono il territorio per lo spaccio della droga".

Matteo Messina Denaro, il superlatitante.
In tutti questi anni sono stati sequestrati beni e arrestati decine e decine di postini ma del boss nessuna traccia...
siamo sicuri che sia ancora in vita?

"Resterà nella lista dei latitanti eccellenti finché non ci saranno prove della sua morte".

C'è secondo lei un tesoro di Provenzano?
"Certo, gratis non lavorava... se c'è un tesoro o meno questo non lo so".

Dei soldi accumulati dal boss non c'è traccia.
Spariti.

Come Matteo Messina Denaro.
Non con, ma come la primula rossa di Castelvetrano.

Un tesoro confermato dai tanti pizzini rinvenuti.
E dalle dichiarazioni dei pentiti.

Non dalla vita dei figli del padrino corleonese che per lavorare si sono improvvisati venditori di vino e guide turistiche.

Lontani dal lusso e dalle aule di tribunale, Angelo e Francesco Paolo hanno sempre dichiarato e dimostrato di non avere niente a che fare con la mafia.

"Se la latitanza di mio padre fosse durata un anno anziché 43 il personaggio Provenzano non sarebbe esistito", questo mi dichiarò Angelo Provenzano nel 2011 in un'intervista in cui il figlio del vecchio padrino chiedeva cure per il padre malato.

Una chiacchierata finita con una domanda:
"Che interesse si ha, a qualunque livello, che mio padre muoia al più presto?".

Forse non c'era alcun intesse a farlo morire.
L'importante, probabilmente, era metterlo a tacere.

Anche con un sacchetto di plastica.
Quello con cui il boss cercò di suicidarsi in cella nel maggio del 2012.
Ci fu pure chi parlò di una messinscena.

Di un patetico tentativo di uscire dal carcere.
Ma come entrò un sacchetto di plastica nella sezione protetta del carcere di Parma, dove Provenzano era detenuto in regime di 41-bis?

Dopo il presunto tentativo di suicidio si verificarono diversi episodi di cadute e svenimenti.

Che insieme alla recidiva di un tumore alla prostata, l'inizio di Parkinson e un'encefalite, mandarono in coma il vecchio padrino, rimasto in 41 bis fino allo scorso 13 luglio.

Con l'angoscia dei suoi familiari pure loro costretti al regime di carcere duro, con una visita al mese e il divieto assoluto di toccare il loro congiunto.

E con la gioia di chi col boss trattò.

Perché se trattativa c'è stata di certo non l'ha fatta un carabiniere.

Pur se colonnello.
Qualcuno lo avrà mandato da Vito Ciancimino.

"Mi manda Picone" funzionò pure con Provenzano.

Nell'esultanza generale per la morte del boss di Corleone si è intuito il sospiro di sollievo di qualcuno mentre si è avvertito chiaramente l'affanno del figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, il teste Massimo Ciancimino.

Importante testimone nel processo in corso a Palermo sulla trattativa Stato mafia, Ciancimino junior oltre alle aule di tribunale è un gran frequentatore dei social ed è sulla sua bacheca facebook che ha esternato il suo pensiero sulla morte del capomafia.

"Per molti collaboratori con la morte di Provenzano scade la mia assicurazione sulla vita...
Sarebbe stato lui a bloccare il mio omicidio, come risulta dai pizzini ritrovati.

Messina Denaro vuole eliminarmi.
Chiaramente non lo temo e non lo ritengo in grado di prendere una simile decisione.

Dovrà chiedere il permesso a chi ha sostituito mio padre.
E un consenso non sarà mai accordato"...

Bene, siamo contenti per lei, caro Massimo.
Ci piacerebbe però sapere chi ha sostituito suo padre.

Di Matteo Messina Denaro si sta invece preoccupando la pm Teresa Principato da anni impegnata a dare la caccia all'ultimo dei padrini, all'uomo che regna come un fantasma su Cosa Nostra:
"Matteo Messina Denaro è nascosto e protetto dalla 'ndrangheta", ha dichiarato il magistrato.

Una rivelazione che va a confermare i legami strettissimi da sempre esistenti fra le due mafie, fin dai tempi dell'omicidio di Antonino Scopelliti, il giudice che avrebbe dovuto rappresentare l'accusa nel maxiprocesso di Palermo ma che fu ammazzato prima, il 9 agosto del 1991, da sicari della 'ndrangheta per ordine dei boss siciliani.

"Cosa Nostra ha avuto un rapporto più organico con la politica", conclude Vincenzo Macrì,
"ma ci sono decine di processi che offrono testimonianza e riscontro dello stesso rapporto fra 'ndrangheta e politica.

Ed è per questa perdurante contiguità con i poteri istituzionali, giudiziari compresi, con la massoneria, con la grande finanza...
che le mafie sembrano invincibili.

Cosa Nostra e 'ndrangheta hanno un legame strettissimo e antico:
il calabrese Domenico Tripodo fu compare d'anello di Totò Riina.

Sia Tripodo sia Nitto Santapaola trascorsero parte della loro latitanza in Calabria".
Lì dove oggi stanno cercando Matteo Messina Denaro.


Raffaella Fanelli

( Raffaella Fanelli )

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